Rileggere Togliatti per riordinare la sinistra. Il contributo di Lucio D’Ubaldo

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EUROPA – È possibile, con tutta la necessaria distanza critica, rivalutare Palmiro Togliatti? È una domanda che coinvolge tutti, anche i più lontani dalla tradizione comunista. Una figura imponente, nondimeno schiacciata dalle sue stesse contraddizioni, è prigioniera di una nervosa congiura del silenzio, spezzata qua e là dal soffio della nostalgia. La storia gli ha dato torto, ma il retaggio di una politica di vasto respiro nazionale resta il suo più importante contributo. Di questo, nonostante l’inattualità della questione, occorre provare a discutere con la dovuta serietà.

La stagione del compromesso storico, o per meglio dire della solidarietà nazionale, ha immesso nel circuito delle relazioni tra cattolici e comunisti l’idea che la politica di Berlinguer rappresentasse un salto positivo vero il superamento della rigida ortodossia togliattiana, vista sempre con timore per l’ossequio al principio di solidarietà con gli indirizzi e gli interessi della politica sovietica. Ancora oggi, fatte salve le preferenze per il primo o il secondo Berlinguer, e cioè quello dell’apertura alla Dc (dopo il golpe cileno del 1973) o dell’alternativa al suo sistema di potere (seconda svolta di Salerno), ogni rievocazione assume come implicita premessa la suddetta superiorità. A Togliatti, finito il comunismo, è dunque riservato l’oblio.

Invece l’Italia democratica deve molto al più importante leader del più importante partito comunista d’Europa. Gli storici ne hanno spiegato le ragioni, molte delle quali si perdono nel buio della pubblica smemoratezza. A Togliatti va il merito di aver impostato e difeso alla caduta del fascismo una coraggiosa politica di responsabilità nazionale. Come ministro guardasigilli si assunse nel 1946 la responsabilità di varare il provvedimento di amnistia per i reati di collaborazionismo con il nemico, impedendo che il paese sì dilaniasse in una prolungata guerra civile.

A sorpresa, ma non per il Vaticano e per De Gasperi, si alzò in Assemblea nazionale per annunciare il voto favorevole del suo partito sull’articolo che recepiva i Patti Lateranensi (articolo. 7 della Costituzione). Vittima di un attentato, nel clima surriscaldato del 1948, trovò la forza per invocare il massimo dell’autocontrollo di militanti e dirigenti di fronte alla prevedibile esplosione delle proteste di piazza.

Sono episodi arcinoti, eppure non più meditati a sufficienza. Togliatti è stato maestro nell’arte della elaborazione e della propaganda politica. Andrebbe anche esaminata con discernimento la sofisticata modalità con la quale seppe affrontare il processo destinato a porre fine alla stagione del centrismo, inserendosi con abilità nel dibattito sulla nascita del primo centro-sinistra. Dietro il suo filo-sovietismo, infine, s’indovinava la consapevolezza dei limiti entro cui poteva dispiegarsi, nell’Occidente democratico, la manovra di un partito nato e cresciuto nel culto della fedeltà al mito della rivoluzione di Ottobre.

Tuttavia il capolavoro di Togliatti è consistito nel fare del Pci un partito che senza essere ostile ai cattolici, anzi aperto a una rinnovata collaborazione con essi, come auspicato nel discorso di Bergamo nel 1963, sul grande tema della pace e della coesistenza pacifica tra i blocchi, ha essenzialmente favorito l’intreccio di fondamentali motivazioni liberali con le dinamiche della graduale rivoluzione socialista.

In sostanza, con tale approccio Gramsci accoglieva Gobetti, dal crocianesimo si passava al marxismo, il pensiero illuminista anticipava e sosteneva il disegno della nuova società senza classi. Non a caso, un azionista gobettiano del calibro di Guido Dorso erigeva il Partito comunista a casa dei liberali più consapevoli della loro funzione innovatrice. Talché, sempre Togliatti, nella battaglia amministrativa del 1952 chiamava non per sbaglio il vecchio Nitti, eminente personalità del liberalismo democratico del primo Novecento, a guidare la lista dello schieramento di sinistra.

In sostanza, né settarismo e né moralismo, prodotti degeneri della stagione post-berlingueriana, potevano rientrare nei rigorosi parametri della cultura politica togliattiana. Così il senso della disciplina: non era solo un requisito dell’organizzazione di partito, ma una forma mentis che il popolo comunista doveva mettere al servizio della società, puntando certamente, anche con questo sforzo di esemplarità, ad esercitare su di essa un potere d’influenza o più chiaramente una capacità di egemonia.

Come che sia, per duttilità o per doppiezza, il togliattismo si è pertanto configurato nei termini di una proposta sempre collegata a una plausibile e ben definita strategia delle alleanze.

Ecco perciò che, depurata da tante scorie ed errori, la lezione di Togliatti potrebbe ancora esibire un principio di vitalità se solo fungesse da catalizzatore di un processo di riordino della sinistra come luogo di condensazione di una politica di responsabilità e concretezza, con una identità chiara, e all’interno di un disegno del tutto esente da una presunzione di autosufficienza, a suggello purtroppo di un multiforme e vago progressismo sopravveniente alla confitta storica del comunismo.

Questa sarebbe una prospettiva in grado di apportare benefici alla crescita, più ordinata e proficua, della democrazia dell’alternanza.

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